architettura

raccolta di pensieri e riflessioni sul tema dell'architettura

 

 

“Senza una lingua non si parla. Anzi, come è noto, “la lingua ci parla” nel senso che offre strumenti comunicativi in mancanza dei quali l’elaborazione stessa dei pensieri sarebbe preclusa. Ebbene, nel corso dei secoli, una sola lingua architettonica è stata codificata, quella del classicismo. Tutte le altre, sottratte al processo riduttivo necessario per diventar lingue, sono state considerate eccezioni alla regola classica e non alternative dotate di lingua autonoma. Anche l’architettura moderna, sorta in polemica antitesi al neoclassicismo, se non viene strutturata in lingua, rischia di regredire, una volta esaurito il ciclo dell’avanguardia, ai frusti archetipi Beaux-Arts.


Situazione incredibile assurda. Stiamo dilapidando un colossale patrimonio espressivo perché eludiamo la responsabilità di precisarlo e renderlo più trasmissibile. Tra poco, forse, non sapremo più parlare architettura; in realtà, la maggioranza di coloro che progettano e costruiscono oggi biascica, emette suoni inarticolati, privi di significato, non veicola alcun messaggio, ignora i mezzi per dire, quindi non dice e non ha niente da dire. Pericolo anche più grave: esautorato il movimento moderno, non saremo più in grado di leggere le immagini di tutti gli architetti che hanno parlato una lingua diversa dal classicismo, i paleolitici, i maestri tardo antichi e medioevali, i manieristi e Michelangelo, Borromini, le figure Arts and Crafts e Art Nouveau, Wright, Loos, Le Corbusier, Gropius, Mies, Alto, Sharoun, i giovani da Johansen a Safdie.


Oggi nessuno adopera gli ordini classici. Ma il classicismo è una forma mentis che travalica gli “ordini”, riuscendo a congelare anche i discorsi svolti con parole e verbi anticlassici. Il sistema Beaux-Arts infatti codificò il gotico, poi i romanico, il barocco, l’egizio, il nipponico e, ultimo, persino il moderno con un espediente semplicissimo: ibernandoli, cioè classicizzandoli.


Occorre dunque sperimentare, subito, senza velleità di risolvere a priori, cioè fuori di concrete verifiche, tutti i problemi teoretici il cui studio costituisce spesso un alibi per ulteriori dilazioni. Decine di libri e centinaia di saggi discutono se l’architettura possa essere assimilata a una lingua, se i linguaggi non verbali abbiano o meno una doppia articolazione, se il proposito di codificare l’architettura moderna non sia destinato a sfociare nell’arresto del suo sviluppo. L’indagine semiologica è fondamentale, ma non possiamo pretendere che dipani, fuori dall’architettura, i problemi architettonici. Bene o male, gli architetti comunicano; parlano architettura, sia o no una lingua. Dobbiamo documentare con esattezza cosa implichi parlare architettura in chiave anticlassica; se riusciamo, l’apparato teoretico verrà da sé, inerente allo stesso scavo linguistico.


Migliaia di architetti e studenti architetti progettano, ma disconoscendo il lessico, la grammatica e la sintassi del linguaggio moderno che, rispetto al classicismo, sono l’antilessico, l’antigrammatica e l’antisintassi. I critici, al duplice livello professionale e didattico, giudicano: con quali criteri? Con quale legittimità in mancanza di essi? Ecco la sfida che ci fronteggia, produttori ed utenti.

 

Per capirci, bisogna usare una stessa lingua, concordandone termini e procedure. Tema che appare gigantesco solo perché fin qui inesplorato."

 

 

  • BRUNO ZEVI, Il linguaggio moderno dell'architettura, Einaudi, Torino, 1973.